Effetto ikea: cos’è e perché ci piace sentirci Muciaccia
Chi di noi non ha mai elevato imprecazioni mentre montava un mobile Ikea, maledendo il momento in cui non non ha acquistato un armadio da una qualsiasi altra parte con – sicuramente – il montaggio incluso? (Spoiler: è il bias dell’effetto Ikea!)
Probabilmente tutti – si, tranne i Giovanni Muciaccia della situazione che riescono al primo colpo!
Eppure, nonostante ciò, le probabilità che la volta successiva che ci servirà un nuovo mobile noi torneremo ad acquistarlo da Ikea sono inspiegabilmente alte.
Ma come mai? Dopo tutta la fatica fatta per montare questo?
E’ una questione di prezzo?
Potremmo crederlo ma no, ci sono svariate soluzioni spesso anche più economiche di Ikea.
E’ una questione di sadismo anomalo? Ci piace soffrire per vedere il mobiletto del bagno montato?
Non proprio, ma quasi.
Ci da’ soddisfazione l’averlo “costruito noi”. L’illusione di averlo realizzato ci fa avere un attaccamento maggiore a quell’oggetto. E ci spinge a dimenticare le imprecazioni, e a tornare da Ikea anche la volta successiva.
La nostra necessità di sentirci dei piccoli MacGyver ha un nome: ikea effect
Questa bias di soddisfazione che scaturisce dal costruire con le nostre mani qualcosa ha preso in prestito il nome dall’azienda svedese: Effetto Ikea.
Attenzione: la sottigliezza di questo effetto è notevole perché non implica di essere portati per lavori manuali. Non si tratta di avere passione per il bricolage o per la manualità in genere, al contrario: è un effetto che colpisce soprattutto i più impacciati con i lavori manuali o coloro che si ritengono “meno capaci”.
Ce lo spiega nel dettaglio Dan Ariely, uno degli psicologi sociali moderni più famosi d’America – nonché, come sa chi mi legge da un po’, mio preferito. Se non vi è completamente chiaro ciò di cui stiamo parlando, questo TED talk davvero efficace e affascinante vi illuminerà.
Come sanno i guru del marketing, spesso il pain point delle persone non è noto nemmeno a loro. E per un’azienda identificarlo può essere una fortuna. Come avviene nel caso di Ikea o nell’esempio delle torte pronte che riporta Ariely: in realtà ciò di cui abbiamo bisogno va oltre il mobile o la torta, ma è la soddisfazione di averlo fatto con le nostre mani.
Ci lega a quell’oggetto, ci fa sentire fieri di noi stessi.
Poco importa se poi i fori del mobile sono già allineati alla perfezione o la torta sia un composto a cui bisogna aggiungere solo le uova: doverci mettere quel nostro tocco in più gli da un valore intrinseco molto maggiore.
Il genio di Ikea: trasformare una mancanza in un valore
Se siamo un po’ appassionati di marketing sappiamo l’importanza delle proposte di valore, e senza dubbio Ikea l’ha beccata in pieno per diversi motivi.
Il primo: creare un’esperienza, un legame psicologico con l’oggetto. Colmare una mancanza che va ben oltre l’acquisto di un oggetto che ci serve. Farci sentire utili ai nostri stessi occhi.
Il secondo: la responsabilizzazione. In Ikea dobbiamo essere autonomi. Non ci sono commessi che ci servono, dobbiamo arrangiarci a scegliere l’oggetto più adatto alle nostre esigenze, configurarlo nella maniera migliore e scegliere i colori giusti. E, come se non bastasse, dobbiamo poi pure prenderci gli scatoloni dagli scaffali e caricarceli in macchina. E scaricarli a casa, infilarli nell’ascensore (se siamo fortunati) o trainarli come muli per le scale.
Finita qui?
Macchè, è solo l’inizio, poi bisogna montarli. E alla fine buttare gli scatoloni.
Diciamocelo: ma quanto ci responsabilizza un acquisto da Ikea?
Il terzo: la community. Acquistare oggetti e doverseli pure montare è un’esperienza, pur nella sua semplicità, rara che accomuna però milioni di persone. Se sentiamo da un nostro amico che ha passato la domenica pomeriggio a montare un divano, noi lo guardiamo con gli occhi socchiusi di chi già sa’ e annuendo facciamo la retorica domanda: “Ikea?“.
In quel momento siamo parte dello stesso branco, potremmo schiacciarci il 5 come nella pubblicità dei Ringo.
Per non parlare dell’apoteosi delle community Ikea: l’Ikea hack. Ovvero quel mondo parallelo degli amanti del bricolage – quelli veri – in cui il montaggio del mobile è solo la base. Il fine vero è l’hakeraggio. Dipingerli, cambiargli forma e funzione, rendere oggetti estremamente comuni degli elementi unici e desiderabili.
Volete averne un’idea? Cercateli su Pintest (e approfittatene per seguire la nostra pagina!)
Come sfruttare il bias dell’effetto ikea sul lavoro
Attivare il coinvolgimento e la partecipazione: contribuire a creare qualcosa di cui siamo fieri.
Quello che facciamo con una libreria Billy possiamo farlo anche sul nostro posto di lavoro, sia per spronare noi stessi che per convincere gli altri a supportarci in un compito.
Come? Nella stessa maniera in cui scegliamo di andare da Ikea: scegliendo una strada non necessariamente facile, ma per la quale siamo disposti a metterci all’opera. Un’attività che ci piaccia, che richieda un nostro contributo.
Attenzione: contributo, non fatica. Non significa fare il doppio delle nostre usuali mansioni – quello si che sarebbe sadismo, e ci farebbe rischiare il burnout.
Significa identificare o inventarci un compito che ci consenta di mettere all’opera una nostra capacità – e che al contempo sia in qualche maniera utile all’azienda.
Già lo sappiamo: ci impegneremo il doppio, finendo probabilmente per lavorarci più del dovuto, ma senza che la cosa ci pesi. Perchè staremo costruendo qualcosa di nostro e al quale ci sentiremo legati, in cui avremo messo del nostro. Di cui parleremo con orgoglio e petto un po’ tronfio.
Analogamente dovremmo fare quando vogliamo coinvolgere altre persone in un’attività: porli davanti a diverse difficoltà (che ci piace chiamare “opportunità”) e lasciar loro scegliere quale preferiscano affrontare. Quale si sentano in grado di trasformare in una opportunità.
Lasciargli uno spazio di cui si sentano padroni e in cui, come tali, siano loro a dettare le regole in termini modi, processi, idee. In cui noi chiediamo solo il risultato, mentre il “come raggiungerlo” è interamente demandato alle loro preferenze.
Se poi volessimo davvero fare la differenza, credo che l’azienda che abbia magnificato l’effetto Ikea sia Google. La loro soluzione è semplicemente lasciare del tempo libero ai dipendenti (qualche ora a settimana) durante la giornata lavorativa da dedicare a qualcosa che li appassioni.
Immaginiamocelo.
Un’ora in cui possiamo sviluppare un’idea tutta nostra o insieme ad alti colleghi, che abbia anche poco a che fare con il dovere e molto con la passione.
Ci farebbe sentire rinvigoriti, con più energie da dedicare non solo al “lavoro secondario” ma anche a quello “ufficiale”. Ci legherebbe di più alla nostra azienda.
Facendoci sentire quel posto, in cui passiamo il 50% della nostra vita da svegli, un po’ di più qualcosa di davvero nostro.
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articolo davvero illuminante!
Grazie Leonardo!