L’istinto di sopravvivenza ci ucciderà
L’istinto di sopravvivenza è una componente fondamentale dell’essere umano.
E’ quello che ci fa percepire con uno sguardo che il nostro partner sta per farci una sfuriata.
Che ci fa nascondere i cocci quando rompiamo qualcosa, nella speranza di non essere scoperti.
Che ci fa preferire una strada illuminata ad un vicolo buio e stretto.
Probabilmente il concetto di “sopravvivenza” è cambiato rispetto ai nostri antenati che lo avevano sviluppato per sopravvivere alla morte, rispetto a noi che lo usiamo perlopiù per “evitare scocciature”.
Nonostante ciò questo retaggio del passato influenza tuttora la nostra vita e ci porta, a volte a fare errori di valutazione grossolani, perdendo la vista d’insieme.
Come?
Per capirlo partiamo da cosa è l’istinto di sopravvivenza, come influenza le nostre vite e prestazioni lavorative e come può “degenerare” del bias di sopravvivenza.
Da dove nasce l’istinto di sopravvivenza?
E’ un retaggio che abbiamo dagli albori della nostra esistenza, la cui provenienza è ben spiegata da Daniel Goleman nel libro “Intelligenza emotiva“. E’ dovuto a una struttura nucleare che abita la nostra testa, l’amigdala, che ha una enorme capacità di identificazione del pericolo e di reazione, molto più veloce della corteccia prefrontale più “razionale”.
Insomma: se quando sentiamo un clacson saltiamo in aria prima ancora di capire se è rivolto a noi oppure no, è grazie (o per colpa) dell’amigdala.
Sicuramente è un allerta che è meglio avere, tuttavia questo giudizio “veloce”, come lo definirebbe lo psicologo Kahneman nel suo Pensieri lenti e veloci, ci rende a volte poco inclini a giudicare le situazioni nella loro complessità.
Ci induce a fare valutazioni approssimative, tanto che questo comportamento ha dato il nome anche ad un bias.
Survivorship bias: il bias di sopravvivenza
A patto che non lo conosciate già, vi propongo un esperimento.
Durante la seconda guerra mondiale l’esercito americano, per massimizzare la resistenza delle sue aeromobili, iniziò a studiare tutte le aree maggiormente colpite dai proiettili sugli aerei che tornavano alla base al fine di rinforzarle.
La situazione era la seguente:
Immaginiamo di essere nel team che deve dare una risposta su quale parte dell’aereo intervenire con dei rinforzi: su quale parte ci soffermeremmo?
Riflettiamoci un secondo.
Potremmo esser portati a rinforzare le ali, così come la coda, importante nel viraggio.
Beh, in entrambi i casi staremmo sbagliando approccio.
Per un semplice motivo che fece notare lo statistico Abraham Wald: staremmo limitando la nostra valutazione agli aerei sopravvissuti. Le parti danneggiate sono proprio quelle che non dovremmo rinforzare, perché significa che, pur subendo colpi, consentono all’aereo comunque di tornare alla base.
Al contrario saranno da rinforzare le parti in cui gli aerei superstiti non risultano danneggiati perché sono, molto probabilmente, le aree in cui sono stati colpiti gli aerei caduti sul suolo di guerra e non tornati alla base.
E’ questo che viene identificato come survivorship bias: valutare delle situazioni basandosi su chi è “sopravvissuto” anziché considerare chi invece non ce l’ha fatta e i motivi per cui non ce l’ha fatta.
Survivorship bias nel lavoro
In questo pregiudizio incappiamo molto spesso, anche nel lavoro: cerchiamo ispirazione da chi ce l’ha fatta e tendiamo ad imitare la loro strada o i loro atteggiamenti.
Il che è giustissimo, ma oltre a prendere il giusto esempio da ciò che queste persone hanno fatto per arrivare dove sono, iniziamo a fare attenzione anche a ciò che non fanno. Ai passi falsi che hanno fatto nella loro carriera, e a come hanno reagito a questi passi falsi.
Il Colonnello Sanders, a 60 anni e quasi senza denaro, girò per due anni gli States ricevendo 1009 “no” prima di incontrare un ristorante interessato alla sua ricetta del pollo fritto. E’ grazie al 1010° tentativo che nacque KFC, la catena di pollo fritto più famosa d’America.
Per ogni “Google” che ce la fa, ci sono centinaia di startup simili che falliscono. E, in ogni caso, anche Google stessa di fallimenti ne ha fatti e superati.
Quando camminiamo è bene farlo a testa alta, ma non dimentichiamoci di dare un occhiata anche a terra: potrebbe esserci un marciapiedi che non abbiamo visto…!
Perchè l’istinto di sopravvivenza oggi ci fa vivere meno
Se da un lato c’è il survivorship bias che ci fa evitare i “morti” badando solo ai sopravvissuti, l’altra faccia dello spirito di sopravvivenza è l’estrema cautela con cui ci fa vivere.
L’avere una vita non pericolosa nel vero senso della parola ci porta talvolta a sovrastimare non i pericoli, ma i rischi. Ed è così che portiamo avanti una vita tranquilla, sicura, ma a volte eccessivamente prudente per paura di rischiare e, magari, di fallire.
Nella normalità delle nostre vite l’istinto di sopravvivenza è spesso più un peso che una salvezza.
“Sono più le cose che ci spaventano di quelle che realmente ci minacciano.
Spesso soffriamo più per le nostre paure che per la realtà“
Seneca
Se l’istinto di sopravvivenza prevale sul reale vivere
E quindi cosa fare?
Beh, dipende dalle nostre attitudini: se in questa bolla di tranquillità abbiamo trovato la nostra dimensione e nel bilancio tranquillità-avventura la prima ha il peso maggiore, continuiamo su questa strada.
Se invece pur soppesando l’importanza della tranquillità – o stabilità – nella nostra vita ci sentiamo però incompleti, come se volessimo fare uno scatto in avanti ma qualcosa ci trattiene, beh: lanciamoci.
Raramente chi ci trattiene è qualcosa di diverso dalla nostra mente.
Altrettanto raramente dopo aver fatto il primo passo si sente il bisogno di tornare indietro, anche se le cose non dovessero andare come previsto. E anche se ciò dovesse accadere lo faremmo di sicuro con una maggior consapevolezza, e avendo la certezza di averci provato senza rimpianti, al massimo con qualche rimorso.
Con la certezza di non finire come in una delle mie poesie preferite dell’Antologia di Spoon River:
Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio.
E’ una barca che anela al mare eppure ne ha paura“
Edgar Lee Masters
(Per chi volesse leggere il meraviglioso testo completo lo trovate a questo link)
In seguito i link ad Amazon per acquistare i libri citati nell’articolo:
Intelligenza emotiva di Daniel Goldman
Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman
Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters
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Ottimo articolo! Mi ha dato spunti importanti per le mie ricerche. Grazie
Grazie Maria Teresa, felici di essderti stati di aiuto!